Backgammon: la tavola del ribelle

Immagina una scacchiera antica, non fatta per obbedire, ma per sfidare. Il Backgammon non è solo un gioco: è un rito di liberazione, un atto di guerra silenziosa contro i sistemi che ci vogliono fermi, uguali e docili.

Fight card players, Jan Steen. Pittura, 1665

Origini da dissolutore di certezze

Nato migliaia di anni fa nel cuore dell’odierno Iran, questo gioco attraversa epoche e imperi, come un sussurro che non accetta la tirannia del banale. In quei tavoli fumosi di narghilè dove le pedine scivolavano tra dadi e silenzi, non si trattava solo di divertimento: era l’atto di riscatto di chi ha scelto di muoversi, non restare immobile.

Regole semplici, rivoluzione piena

Due giocatori, trenta pedine bianche e nere, una board divisa in quattro quarti: non serve un esercito, serve strategia. Ogni lancio di dadi è un atto della natura che decide, ma tu scegli come reagire. Il potere vuole che tu accetti la sorte passiva: il Backgammon ti insegna a muoverti comunque, anche se il dado sembra fregarti.

Il grande significato dietro il tabellone

Il cammino delle pedine non simboleggia scontri o dominazioni: simboleggia la vita, la notte e il giorno, le stagioni che cambiano. Non è guerra, è un viaggio.
Il potere delle élite vuole conflitti, sottomissione, territori da conquistare. E invece questo gioco ti mostra: puoi vincere senza annientare, puoi uscire dal quadrato senza schiacciare l’avversario, puoi farcela con intelligenza, non con la forza bruta.

Un manifesto contro i potenti

Mentre un tempo l’antica Persia diffondeva tolleranza e cultura — lo sguardo alto di una civiltà che accoglieva — oggi vediamo i potenti che controllano, reprimono, vogliono che stiamo fermi. Ma nel Backgammon troviamo la chiave: muoviti. Non aspettare che il dado scelga per te. Non lasciare che qualcuno stabilisca il tuo cammino.
Quando togli tutte le pedine dal tabellone, non è solo una vittoria nel gioco: è un’affermazione: «Non mi avete fermato».

TABULA — il gioco dei ribelli, dei popoli e degli dèi dimenticati

C’era un tempo in cui i popoli giocavano non solo per vincere, ma per sfidare il destino. Tabula, antico gioco da tavolo nato più di 5mila anni fa, è considerato l’antenato diretto del moderno backgammon — ma in realtà era molto più di questo: era una metafora del caos e dell’ordine, della fortuna cieca e della ribellione dell’uomo contro la sorte.

Immagine attuale: Illustrazione del XIII secolo raffigurante giocatori di tabula, dal Codex Buranus
Illustrazione medievale di giocatori di tabula dai Carmina Burana del XIII secolo.

La prima testimonianza scritta arriva dai versi di Agazia (527–567), tramandati nell’Antologia Palatina, in cui si racconta la disfatta dell’imperatore d’Oriente Zenone. L’uomo più potente del mondo, sovrano di legioni e palazzi dorati, fu sconfitto non da un esercito, ma da tre dadi. In un solo lancio — 2, 5 e 6 — perse ogni vantaggio, lasciando otto pedine isolate, nude, esposte al nemico.

«Noi, che in nessun conto siamo fra gli uomini, anche se abbiamo compiuto azioni grandi nel ricordo di nessuno durevolmente entrano. I personaggi potenti invece, anche se nulla fecero, basta che respirino ed ecco, come disse l’uomo di Libia, che ciò resiste allo stesso modo dell’acciaio. Quando infatti una volta Zenone, re protettore della città compiva il gioco degli irragionevoli dadi, si trovò in tale posizione di gioco molto complessa: dalla parte del bianco, che può muoversi anche all’indietro, sette pedine avevano la VI casella ed una la IX, ma “il sommo” abbracciando due pedine era uguale al X e quello che sta dopo “il Sommo” ne aveva due. Un’altra unità, come ultima pedina, l’abbracciava “il Divo”. Ma il nerò lasciò due pedine nell’VIII casella ed altrettante nell’XI posizione. Intorno alla XII casella ne apparivano altrettante e nella XIII si trovava una sola pedina. Due pedine regolavano la posizione “di Antigono” ma a questa uguale era la situazione della XV casella ed in tutto simile alla XVIII. il più il quartultimo ne aveva altre due. Ma l’Imperatore, avuti in sorte i segni del dado bianco, e non ponendo mente alla futura trappola, improvvisamente gettati dal crivello, rimanendo nascosti i gradi del bossolo di legno ne trasse sul tavolo 2,6 e 5. Cosicché subito vaganti aveva tutte quelle otto pedine che prima erano fra loro legate. Dalla tavola di gioco state tutti lontani, dal momento che neppure l’Imperatore riuscì a sfuggire alle sue irragionevoli forze» (AgaziaEpigrammi, 100)

Agazia, con la lama della parola, trasformò quella sconfitta in una lezione eterna:
i potenti respirano e già vengono scolpiti nel ferro della memoria, mentre i popoli che costruiscono, amano e lottano scompaiono come polvere nel vento.

Ma nel suo epigramma brucia una scintilla di rivolta. Perché se neppure l’Imperatore, “protettore della città”, poté salvarsi dal destino lanciato dai dadi, allora nessun trono è al sicuro, nessuna autorità è eterna. Tabula diventa così un grido antico: il fato non appartiene ai re, ma a chi osa sfidarlo.

Il gioco, praticamente uguale al backgammon, metteva di fronte due avversari armati di 15 pedine ciascuno, in un duello di strategia e fortuna, su un tavoliere diviso in due campi. Bastava che una pedina restasse sola per essere spazzata via: un gesto che riassume tutta la fragilità del potere umano.

Tabula, il gioco da tavolo romano, ritrovato quasi intatto sotto le rovine del castello di Gloucester.
Tabula, il gioco da tavolo romano, ritrovato quasi intatto sotto le rovine del castello di Gloucester.

Nel XIX secolo, Becq de Fouquières ricostruì le regole di Tabula proprio da quell’epigramma — restituendoci la voce di un gioco proibito, perseguitato dai concili religiosi e dai codici imperiali, perché troppo umano, troppo libero.
Il Concilio di Elvira (Spagna, 307) lo condannò come distrazione empia;
Isidoro di Siviglia e il Codice Giustinianeo lo maledissero nei secoli.
Ma come ogni idea che non si piega, Tabula sopravvisse.Rinasce oggi in chi, lanciando i propri dadi, non accetta più il ruolo imposto.
Rinasce ogni volta che un popolo unisce le proprie pedine e decide di cambiare la sorte.
Perché anche un semplice gioco da tavolo, in fondo, può diventare un manifesto:
nessuno è schiavo del destino, se osa giocarlo.